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11 Giugno 2015

PARISI SU RENZI: “NON VORREI CHE INSEGUENDO DECINE DI ELETTI SCORDASSE MILIONI DI ELETTORI”
intervista a Goffredo Pistelli, ItaliaOggi p.5

Quando nel Pd, le tensioni crescono, molti guardano ad Arturo Parisi che quel partito ha fondato nel 2007. Questo docente universitario sassarese, classe 1940, e in politica, nell’area cattolico-democratica, da molto prima, da quando cioè fondò, con Romano Prodi, l’Asinello, facendo poi il ministro della Difesa nel suo secondo governo.

Domanda.

Professore, dell’ultima direzione del Pd, Matteo Renzi non ha usato il pugno duro con la minoranza, come qualcuno dei suoi gli chiedeva, ma è stato chiaro: dialogo sì ma poi si va avanti, perché ci sono da completare le riforme, prerequisito per contare in Europa.

Risposta. Non sono parole nuove. Né nuovi sono i comportamenti che le hanno provocate. La battuta d’arresto dell’ultimo voto ci dice tuttavia che non si può continuare ancora a lungo in questo modo.

D. Vale a dire?

R. Io credo che Renzi ha molte e fondate ragioni per contestare le letture negative del risultato delle ultime regionali. Resta tuttavia che l’atmosfera magica creata dallo straordinario 41% raccolto dal partito nel voto europeo è ormai alle sue spalle.

D. Che cosa è accaduto, secondo lei?

R. Si è interrotta la magia e il rischio è ora che si viri troppo in fretta verso la normalità. Se nei giorni della invincibilità, nei giorni del «dio è con noi», era possibile sfidare gli oppositori al voto e allo stesso tempo non tener conto dei loro voti, ora che questa invincibilità non appare più scontata, le parole di Renzi, o, almeno il loro tono, ci dicono che la determinazione riformatrice resta ma che, per il futuro, le sfide saranno più misurate e i voti ostili contati con maggior cura.

D. Le aperture, annunciate, su scuola e Senato, proprio per dar prova di disponibilità al dialogo, mostrano la scelta di una ricomposizione? Oppure, visto che Maurizio Landini si accompagna ai reduci di Autonomia operaia, sono solo ballon d’essai perché il segretario si sente tranquillo del fatto che una scissione sia impraticabile?

R. Come si sente Renzi non lo so.

D. E se fosse al suo posto?

R. Al posto suo io non sarei tranquillo. È infatti vero che, all’interno come all’esterno del partito, di fronte a lui stanno delle opposizioni che non riescono a proporsi come una opposizione e meno che mai come una alternativa. Le elezioni ci hanno tuttavia ancora una volta ricordato che spesso anche chi perde può far perdere.

D. Una lezione?

R. È la lezione che Renzi ha appresa e denunciata per la Liguria, la lezione che sarebbe stato bene approfondire meglio, per quel che riguarda l’ulteriore avanzamento dell’astensionismo, la stessa che lo scorso anno fu ignorata e rifiutata in occasione del tracollo registratosi nelle regionali emiliane.

D. E quindi?

R. E quindi non è sicurezza né sicumera che vedrei all’origine del passaggio di fase. Ma una consapevolezza maggiore delle difficoltà permanenti. Una rinnovata convinzione della necessità di allungare il passo, per portare a compimento le riforme impostate, ma allo stesso tempo la preoccupazione di dare ad esse dentro il proprio campo una base di consenso maggiore.

D. Per il prosieguo, c’è chi suggerisce a Renzi di ricomporre con la minoranza interna. Altri gli dicono di continuare per la sua strada e, così facendo, procedere verso il Partito della nazione. Secondo Parisi cosa dovrebbe fare il segretario?

R. Per come ha definito le due strade, né l’una né l’altra. O, se le piace di più, potremmo dire tutte e due, purché siano pensate e costruite guardando agli elettori invece che agli eletti.

D. Come sarebbe possibile, professore?

R. Renzi vada avanti per la sua strada, che non può tuttavia essere il Partito della Nazione. E ristabilisca, allo stesso tempo, il contatto più che con la minoranza interna degli eletti, con la maggioranza esterna degli elettori di centrosinistra che in questi anni si è allontanata con rabbia verso i M5S e l’astensione. Io capisco…

D. Io capisco…?

R. …io capisco che, nella quotidianità, Renzi non può non fare i conti con quanti, nelle assemblee di gruppo o negli organi di partito, sono per lui interlocutori necessari e spesso determinanti. Ma non vorrei che, inseguendo le decine di eletti, dimenticasse i milioni di elettori che si sono allontanati, dalle minoranze non meno che dalla maggioranza del partito. La ricomposizione interna ha un senso politico solo se è guidata dall’obiettivo del recupero di questi milioni di voti.

D. Spieghiamolo bene, professore.

R. Per guidare il Paese verso il futuro il Pd non può non coinvolgere tutta la capacità di innovazione, di intraprendenza, di rischio di chi nel processo di globalizzazione si sente vincente. E Renzi ha fatto bene ad intercettarli. Ma il partito non può perdere di vista i perdenti: la loro crescente estraneità dalla politica, la loro permanente rabbia verso i politici.

D. Dunque giusto cercare la composizione?

R. Fa bene Renzi a continuare a cercare il consenso di tutti, ma a partire da una proposta pensata, innanzitutto, per quanti in questo passaggio si sentono deboli e perdenti. Mi sembra che, anche da questo punto di vista, la lezione del voto sia utile. Più che il mutamento nel posizionamento del partito, a premiarlo è stata la qualità, la competenza e l’efficacia, della proposta. Chi aveva vagheggiato scavalchi e cavalcate a destra è invece rimasto deluso. Ho idea che per un po’ di Pd, Partito unico della nazione, si sentirà parlare di meno.

D. Esiste, secondo lei, un problema di gestione del Pd? Renzi l’ha voluto come passo necessario alla sua ascesa e per non averlo nemico una volta a Palazzo Chigi o c’è dietro un’idea?

R. Prima di tutto è l’idea del partito che, a mio parere, andrà riconsiderata. La gestione ne verrà di conseguenza.

D. In che modo?

R. Ferma restando la coincidenza tra premiership di governo e leadership di partito che connota il partito attuale, l’introduzione del doppio turno e lo spostamento del premio di maggioranza dalla coalizione alla lista vincente, la differenza verrà dal fatto che la lista corrisponda a un solo partito, o invece ad una coalizione di partiti.

D. Che cosa comporterà?

R. Che se un partito è una parte, prima che dai rapporti tra le sue parti interne, è definito dalla dinamica che al suo esterno regola l’intero sistema. Ed è appunto questa regola che in questo passaggio è sottoposta ad un cambiamento profondo. Un cambiamento che sarà determinato sia dalle nuove norme che si vanno introducendo a livello nazionale e regionale, sia dalle modalità con le quali le parti cominciano ad interpretarle.

D. Con quali conseguenze?

R. Non credo, ad esempio, che sarà possibile al Pd restare indifferente alla scelta del centrodestra di dar vita ad una lista coalizionale. È per questo che, se è utile aprire presto una riflessione sulla idea di partito che ho sentito ipotizzata per il prossimo autunno, non credo che sia possibile chiuderla prima che la fine del processo riformatore sia in vista.

D. Il successo di Renzi è legato alla sua capacità di governare e governare bene. Ma non tutto l’esecutivo, dopo un anno e mezzo, pare all’altezza. La battuta di arresto alle regionali potrebbe dargli l’occasione di un rimpasto? O sarebbe troppo vecchia politica?

R. Di vecchia politica si tratterebbe se, a guidare l’operazione, fosse la logica della rappresentanza, e non le esigenze della governabilità. La necessità di assecondare anche dentro il governo la frammentazione del Parlamento, e non invece a rafforzare l’unità della azione di governo.

D. Secondo altri osservatori le difficoltà dell’esecutivo, il difficile rapporto con un gruppo parlamentare, potrebbero spingere Renzi a voler chiudere in anticipo la legislatura, una volta approvato la riforma del Senato. Ma c’è chi pensa però che potrebbe essere la sinistra dem a voler accorciare i tempi, provando ad andare a votare col Consultellum. Fantapolitica?

R. Diciamo fantasie se si tratta di previsioni.

D. E se invece si trattasse di progetti?

R. Li direi irresponsabili. Penso in particolare all’idea o al progetto di riportare l’Italia esattamente a dove era ventidue anni fa. Alla legge proporzionale, con le battaglie spietate per le preferenze su circoscrizioni di dimensioni enormi che segnarono la stagione di Tangentopoli. Con in più il mantenimento del disastroso sistema bicamerale, e in meno i partiti che negli anni della prima repubblica smagliavano e rimagliavano ogni giorno la trama della governabilità. Immagini il governo delle regioni privo dell’investitura diretta dei Presidenti finito nelle mani delle liste che si sono spartite i voti dei cittadini.

D. Nessun voti anticipato, quindi?

R. Capisco il voto a processo riformatore concluso. Ma un suicidio collettivo di queste dimensioni a seguito di un aborto procurato nel corso dei prossimi mesi? Non voglio neppure pensarci. Verrebbero a studiarci da Pechino. Speranzosi e allo stesso tempo terrorizzati. Fortunatamente c’è il presidente della Repubblica, che ci tiene la mano sul capo.