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19 Agosto 2015

PARISI: “URGE UN CONFRONTO VERO: LE RIFORME COSTITUZIONALI NON SONO UN TEMA DA LIBERTÀ DI COSCIENZA. LE DIVISIONI INTERNE VICINE AL LIVELLO DI GUARDIA.”
Intervista a Goffredo Pistelli, ItaliaOggi p.1 e p.5

Ancora pochi giorni dal Vietnam, ossia la guerra parlamentare che la minoranza del Pd ha promesso a Matteo Renzi sulla riforma costituzionale del Senato. Scontro che rischia di dilaniare un partito di cui Arturo Parisi è stato fondatore. Un motivo,questo, per cui si può disturbare la vacanza del fondatore dell’Asinello, nonché sottosegretario del Prodi I e ministro della Difesa del Prodi II.

Domanda.

Professore, a settembre, andrà in scena la resa dei conti fra Renzi e la sinistra dem. Quello che qualche parlamentare bersaniano ha improvvidamente definito il Vietnam. Cominciamo proprio da quell’accostamento storico, che gliene pare?

Risposta. Conviene sorriderne. In un Paese nel quale l’ultimo Matteo Salvini riesce a prospettare come esito dell’immigrazione in corso nientedimeno che un «genocidio» degli italiani, può starci anche la minaccia di un Vietnam.

D. Sì, ma fatta la tara delle metafore belliche?

R. Resta comunque che, ancora una volta, l’autunno politico sembra annunciarsi veramente caldo. Già soltanto la mole di emendamenti che in agguato attende in Senato la riforma costituzionale e il fatto che più della metà dei senatori ne ha sottoscritto qualcuno, ci dà una misura del calore.

D. Nel merito, le richieste della sinistra hanno fondamento o servono solo creare, appunto, un moderno Golfo del Tonchino alla rovescia?

R. Più che del merito, ci dicono della esistenza e della resistenza di chi le avanza. Anche se le parti che si fronteggiano ostentano sicurezza sull’esito, l’unica cosa che al momento appare sicura è che le distanze e le divisioni interne al Pd vanno superando il livello di guardia.

D. Pare evidente che Pierluigi Bersani, Roberto Speranza, Gianni Cuperlo, ma anche Rosi Bindi, considerino Renzi un abusivo, un intruso. È questo l’unico motivo che li tiene ancora dentro il Pd, il desiderio di liberarsene?

R. Nel caso, direi l’opposto. Più che la prospettiva di liberare il Pd della sua attuale guida, a tenerli insieme è sempre più la tentazione di liberare della loro presenza quello che per alcuni, penso a Ilvo Diamanti, sarebbe irrimediabilmente diventato il PdR, il Partito di Renzi.

D. Vale a dire?

R. Alla prospettiva di riuscire a sconfiggere Renzi in un confronto interno va sostituendosi la tentazione della scissione. La frustrazione per la condizione presente e la perdita di fiducia nella azione interna al partito va alimentando il desiderio di ricominciare, in un altro modo da un’altra parte. Comunque vada a finire, un disastro.

D. È per questo che l’autunno si annuncia caldo?

R. Esattamente. Comunque vada a finire. Chiunque vinca. Anzi, meglio, chiunque perda.

D. E se vince Renzi?

R. Se a perdere dovesse essere il fronte anti-renziano, la debolezza delle opposizioni interne, da sentimento, apparirebbe un fatto provato, mettendo le premesse della rottura esterna.

D. E se vincono gli altri?

R. Se a perdere dovesse essere Renzi salterebbe tutto il disegno riformatore e, assieme a esso, la possibilità dello svolgimento ulteriore della leadership renziana. A livello sistemico il risultato sarebbe comunque l’ulteriore avanzamento della frammentazione partitica.

D. Ne deriverebbe?

R. Nessuno si illuda. Frammentazione chiama frammentazione. La frammentazione del fronte avverso, si traduce presto in frammentazione del proprio. In luogo del «divisi per dividere», conviene riingranare la marcia dell’«uniti per unire».

D. E come?

R. Ritrovando al più presto un principio d’ordine che dia alla riforma costituzionale quel fondamento e quel consenso che ogni riforma costituzionale non può non avere. Pur senza illudersi di riuscire a coinvolgere tutti, questo non è un tema da affidare alle prove muscolari o alle manovre tattiche.

D. Dunque?

R. Riprendere il confronto esterno, ma assieme e prima, quello interno con tutte le componenti della opposizione. Certo non con l’obiettivo di un accordo qualsiasi, ma con quello di un chiarimento vero. Anche se fosse l’ultimo.

D. Spieghiamolo bene, professore.

R. All’interno di un partito, la materia costituzionale non è certo un tema da lasciare alla libertà di coscienza. Sarebbe bene che fosse a tutti evidente che, una rottura su questo tema, si tradurrebbe nella premessa inevitabile di una rottura della unità del partito. Urge perciò, e questa urgenza comincia a misurarsi in ore, che si avvii un confronto reale. Quel confronto reale che finora è mancato.

D. A che cosa pensa?

R. Non certo all’annunciato rimpasto o rimpastino di governo, e nemmeno alle garanzie di posti riservati nel parlamento prossimo venturo. Ma a un confronto che muova dai rami alti, dalla crisi del progetto europeo, dal contributo italiano, dalla necessità di una interlocuzione stabile e affidabile nel confronto con gli altri Paesi. Da chi in Europa parla a nome del nostro Paese, e da che cosa va a dire per il futuro dell’Europa.

D. In che senso c’è bisogno di parlare di Europa in un confronto interno al Pd?

R. Ma ci rendiamo conto che in soli tre anni, non dico Angela Merkel, ma lo stesso François Hollande, col quale dovremmo stringere non so quale patto, ha conosciuto ben tre presidenti italiani, ogni volta annunciati come il nuovo futuro? Se gli interrogativi sono quelli giusti, e vengono affrontati nella sequenza giusta, son sicuro che, almeno sui temi costituzionali, un incontro sarà possibile sia all’interno del Pd che con un ampio arco di forze politiche.

D. Questo significa che neppure la necessità di concludere le riforme iniziate legittima Renzi a cercare, nell’alleanza con Denis Verdini, un succedaneo del Nazareno?

R. Diciamo che se questo accordo dovesse servire solo a dribblare Bersani o Silvio Berlusconi, o ambedue, si farebbe poca strada. E ho paura che quel po’ che si fa, la si farebbe all’indietro.

D. In che senso?

R. L’introduzione di nuove regole di gioco non può essere pagata con la distruzione degli attori che dovrebbero giocarlo. Non si può lavorare alla costruzione di una democrazia competitiva, fondata su una credibile alternabilità tra diverse proposte di governo, se contemporamente, sotto la pressione di urgenze immediate, si distrugge l’unità complessiva del sistema e si frammentano ulteriormente le forze politiche.

D. Che cosa comporta?

R. È a causa di questa contraddizione che nell’Italicum siamo finiti con la soglia del 3% e con la maggioranza di deputati nominati. È a causa di questa contraddizione che qualcuno immagina di scambiare la riforma del Senato, con la reintroduzione nell’Italicum, del premio di coalizione. Non ci sono voti aggiuntivi che prima o poi non presentano il conto.

D. Queste settimane hanno registrato anche un protagonista inatteso, Giorgio Napolitano. In effetti l’attivismo di un ex-presidente, se si eccettua Francesco Cossiga, buonanima, è inusuale. Secondo lei è opportuno che Napolitano intervenga?

R. Comunque è legittimo. Anche se a vita, una volta senatori si è senatori esattamente come gli altri. È anche per questo che ritengo impropria e incoerente la previsione nella nuova Camera delle Regioni dei senatori nominati. Per quanto simbolica essa sia, ed anzi proprio perchè simbolica.

D. Ossia?

R. Fino a quando uno siede in Parlamento ha comunque il dovere di anticipare, sostenere e spiegare le scelte alle quali è chiamato dalla Costituzione. Che poi, un ex-presidente sia ancora portato a pensare, e anche noi a pensarlo, a partire dalla posizione e dal punto di vista precedente, è in gran parte una questione di tempo. Come per ogni ruolo, anche la presidenza della Repubblica esige un tempo per disapprenderlo come quello per apprenderlo. Peraltro…

D. Peraltro…

R. Peraltro tra politici che guardano alle istituzioni da un punto di vista immediato e particolare, il contributo di chi ha avuto la possibilità di pensarle con uno sguardo lungo e generale è una risorsa per tutti.

D. Pare comunque che il suo firmarsi «emerito», in alcune lettere ai giornali, abbia infastidito il Quirinale.

R. Quanto ai fastidi, più che a questi «si dice», preferirei, nel contesto del nostro discorso guardare ad altro.

D. Per esempio?

R. Alle troppe voci che ragionano sulle speranze e minacce di ritorno al voto, e ancora una volta straparlano di scioglimenti delle Camere. Come se questa non fosse prerogativa prima e fondamentale del Presidente della Repubblica. Di quello in carica. E come se Sergio Mattarella avesse meno a cuore di altri la preoccupazione che questa legislatura finisca nel caos invece di portare a termine il processo riformatore.