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10 Giugno 2016

CHI E’ IL PIU’ BELLO DEL REAME? – PARISI:”QUESTO E’ IL PARADOSSALE QUESITO POSTO AI PROSSIMI BALLOTTAGGI AMMINISTRATIVI”
Intervista di Goffredo Pistelli, ItaliaOggi p.5

Professore universitario, padre fondatore dell’Ulivo e poi del Pd, ministro del Prodi II, Arturo Parisi, classe 1940, e un grande saggio della politica italiana e non di quelli buoni per tutte le stagioni, che aggiustano il tiro fiutando l’aria. Chi segua i suoi interventi, che riserva solo ai momenti e ai temi in cui e su cui ci sia veramente da dire qualcosa, trova in Parisi una grande coerenza di pensiero.Sulle amministrative, sui ballottaggi, e sul referedum costituzionale, un punto di vista che non può mancare.

Domanda.Professore, Matteo Renzi s’era tenuto prudentemente alla larga da queste amministrative, concedendo ai leader locali il minimo sindacale in fatto di appoggio in loco. Sembra tuttavia che questa prudenza non sia bastata per stornare il peso di una sconfitta, che lui stesso ha ammesso?

Risposta. Diciamo innanzitutto che per gli esponenti locali leader è una parola larga, spesso larghissima.

D. E perché?

R. Diciamo di norma, ma comunque per tutti i partiti attuali. La personalizzazione della politica e la concentrazione della comunicazione al livello nazionale finisce per coinvolgere la figura centrale, attribuendo a essa ogni bene e ogni male, quale sia la distanza da lui manifestata dalle cose locali. Attribuita a lui per quello che non ha fatto, non meno che per quello che ha fatto.

D. Premessa importante.

R. Bene, se si aggiunge che sempre, ma a maggior ragione in un passaggio come quello presente, le elezioni locali sono lette pensando al governo futuro. del Paese più che a quello presente delle città, non c’è da farsi illusioni.

D. E cioè?

R. Cioè quando il 19 potremo tirare le somme «lo specchio delle nostre brame» che, come in Biancaneve, interroghiamo ogni giorno ossessivamente, non ci dirà chi è il più bello di Roma, di Milano, di Napoli, o di Bologna, ma appunto chi è «il più bello del reame», perchè è quello che gli abbiamo domandato. Tanto più se poi la distanza dalle situazioni è stata tenuta a fasi alterne e spesso a metà.

D. La metafora favolistica funziona, professore ma lei mi sta dicendo che non è poi così vero che Renzi con i risultati locali non c’entri nulla?

R. Interrogato sul La7 da Massimo Franco e dalla Lilli Gruber, ieri Renzi mi è sembrato chiarissimo. «Come mai, in un partito come il nostro», ha detto, e vado a memoria, «il centro decide del centro e gli organi locali decidono delle cose locali, nel caso, coinvolgendo largamente i cittadini attraverso le primarie?».

D. Cosa intendeva?

R. Intendeva, a differenza di Silvio Berlusconi e di Beppe Grillo, e dando ad intendere anche nel Pd ci si regola a simiglianza di quel che si vede nelle grandi democrazie, a cominciare dalla «nostra» America. Perfetto.

D. E allora?

R. Perfetto infatti solo nelle parole.

D. Perché professore?

R. Possiamo infatti dire che sia stato questo l’atteggiamento del Nazareno nelle situazioni delle grandi città prive di candidati uscenti, come Torino, Bologna e Cagliari? Penso, naturalmente, innanzitutto a Roma, Milano e Napoli.

D. Ha deciso il vertice nazionale cioè?

R. Negli ultimi tempi, la distanza dalle cose locali non poteva essere maggiore, è vero, fino al punto di assistere allo svolgimento di due campagne del tutto distinte, reciprocamente indifferenti se non addirittura divaricate, con il vertice nazionale tutto concentrato sul Referendum di ottobre. Ma possiamo dire lo stesso dei mesi precedenti?

D. Così non è stato?

R. Della apertura e governo della crisi della giusta di Ignazio Marino, intestata direttamente al vertice del Pd, delle vicende relative alle infelici primarie di Roma e di Napoli. Della gestazione delle candidature di Roberto Giachetti, di Beppe Sala e di Valeria Valente in tutte e tre le città. Verrebbe da dire…

D. Verrebbe da dire?

R. Che, se nella campagna, la distanza del centro non poteva essere maggiore, nella sua preparazione difficilmente poteva essere minore. Parlando al buio dell’esito finale che se positivo potrebbe farci assistere alla celebrazione di questo modo di procedere, possiamo dire che questo passaggio ha messo in evidenza problemi che attendono soluzioni.

D. Diciamo quali, professore.

R. Quelli appunto nel rapporto tra centro e periferia, tra decisione e partecipazione. Problemi dei quali, nel Pd, si può discutere grazie al fatto che si dice partito e si qualifica democratico, a differenza degli altri due poli del nostro «tripolarismo imperfetto», che si negano ambedue a uno di questi riferimenti o ad entrambi. La verità è che il Pd deve ancora scegliere tra due modelli diversi di democrazia.

D. Ossia?

R. Ossia, da una parte, sta una idea di democrazia policentrica fatta di leader autonomi e forti in rete tra loro, dove il vertice nazionale è il motore di un processo di una continua unificazione politica e allo stesso tempo garante del rispetto rigoroso delle regole comuni.

D. Dall’altra?

R. Dall’altra sta, all’opposto, una idea di democrazia tutta accentrata sul solo leader nazionale impaziente di piegare il partito sulla sua linea e invece pragmatico nella applicazione delle regole. Nel sentire ieri anche solo il tono col quale Renzi ha dichiarato l’intento di intervenire nel partito dopo i ballottaggi «col lanciafiamme» ho paura che la sua scelta tra i due modelli resti inequivoca.

D. Già, ma che succede adesso? Renzi proverà a vincere almeno i ballottaggi o, a maggior ragione, prenderà le distanze da quelle urne?

R. Tuttaltro che indifferente al risultato continuerà ad annunciare che non sarà quello a fermarlo. Applicandola alle distinte situazioni approfitterà della occasione per illustrare la sua proposta per il Paese.

D. Ricordiamola.

R. Quella di una Italia che accetta la sfida della globalizzazione, di una Italia che può vincere, grazie alla mobilitazione di quelli che hanno vinto e che si sentono vincenti. A Milano in competizione col centrodestra diviso e frenato dalle sue contraddizioni. A Roma in alternativa frontale al M5S, che ha scelto invece di rappresentare i perdenti che nel suo racconto di vittoria sentono nel migliore dei casi l’annuncio di una vittoria d’altri. Mi sembra che la sfida sulla scelta di fare le Olimpiadi sia, da questo punto di vista, esemplare.

D. Sì, ma secondo lei come finisce davvero a Milano, Roma, Torino e Bologna?

R. Credo come i più che la partita sia aperta e in ogni caso nuova. Soprattutto a Milano e Roma si parte zero a zero. Penso anch’io che sia una prova cruciale. Una prova destinata a rivelare a noi stessi chi siamo. Oltre al risultato, conterà la lettura della dinamica che lo ha prodotto.

D. Che significa?

R. Ho letto Antonio Polito parlare di un «voto a dispetto», dato al più lontano per far perdere il più odiato.

D. Non è così?

R. La verità è che se nello schema lineare costruito sul bipolarismo destrasinistra si poteva almeno dire, ripeto, solo dire che gli elettori di estrema sinistra erano più vicini al centro di quelli all’estrema destra, questo non è più vero in uno schema tripolare.

D. Perché?

R. Se il triangolo dei sentimenti e dei risentimenti sociali non è equilatero, e equilatero non è, un elettore M5S può sentirsi vicino ad un elettore della Lega o dei paraggi, più che ad un odiato elettore dell’odiato Pd. È anche questo quello che il voto del 19 ha il compito di dirci. Soprattutto a Roma.

D. Senta, ma che ripercussioni potrebbe avere un risultato ulteriormente negativo, come la perdita di Milano, su Pd?

R. Nell’immediato poco, soprattutto all’interno. La vittoria di Renzi è ancora lontana dall’essere colta. Altrettanto non direi per la sconfitta dei suoi oppositori interni, che appaiono privi di un disegno politico e soprattutto incapaci di parlare al mondo dei perdenti che si nega a loro forse ancor più che a Renzi.

D. Poi verrà il referendum. Quale l’impatto di questa tornata elettorale sul referendum costituzionale? Si era detto che la campagna del Sì era partita con troppo anticipo. Il variegato fronte del NO userà come leva questo insuccesso?

R. Renzi lo ha detto con chiarezza: il treno per ottobre è già partito. Quello è l’appuntamento vero, al primo binario.

D. E quindi?

R. Di certo gli avversari non potranno non cercare nel risultato tutto il coraggio che ancora non hanno trovato. Il coraggio di opporsi, e ancora di più di opporsi assieme senza una azione passata che li abbia accomunati in Parlamento, e l’annuncio di cosa potrebbero mai fare assieme del nostro futuro. Se l’avversione a Renzi è l’unica risorsa comune la sua sconfitta potrebbe rincuorarli. Potrebbe.

D. Non ne è convinto, mi pare.

R. Se è vero che non c’è avversario migliore di chi si dice vincente e all’improvviso appare perdente, è anche vero che può unire di più un avversario inorgoglito da una vittoria di uno ridimensionato da una sconfitta. Ma sono calcoli inutili che immaginano una prova ad immediato ridosso. I mesi che ci attendono sono invece lunghi e, soprattutto pieni di potenziali insidie e occasioni per tutti.

D. Non c’è solo la il referendum comunque. O meglio, all’orizzonte ce n’è anche un altro quello dei britannici sul restare o meno in Europa. Se il «leave» vincesse, lo scenario europeo, economico e non solo, sarebbe preoccupante. E il governo Renzi dovrà far fronte. Che ne pensa?

R. Brexit è appunto il nome della prima prova che ci attende. Del risultato ci resta da conoscere la misura di certo più grave se dovesse vincere il «leave». Ma di esso purtroppo conosciamo già il segno negativo. Le concessioni già fatte, a partire dalla minaccia di uscita, hanno infatti già indebolito tutte le forze e i Paesi più europeisti, e incoraggiato i contrari a seguire l’esempio britannico.

D. E dunque?

R. Dunque si apre perciò più che mai uno spazio per una iniziativa e una leadership veramente europea che riesca ad associare una rinnovata visione dell’Europa che vogliamo ad una azione realistica dell’Europa che abbiamo. Uno spazio nel quale una Italia, rassicurata dalla rinnovata capacità di governare il suo futuro, potrebbe dare il contributo di chi sa, come avrebbe detto Aldo Moro, che il suo futuro non è più nelle sue sole mani. Più che mai.