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1 Febbraio 2006

Corrado Passera: “All’Italia serve un piano per tornare a crescere”

Autore: Francesco Manacorda
Fonte: la Stampa

«A Davos l’Italia quasi non c’era». Scusi? «Sì. A Davos, tra i grandi e meno grandi paesi del mondo l’Italia era certamente quello meno rappresentato, e questo è un gran peccato. Sia perché in un ambiente del genere c’è da imparare, o quantomeno c’è la possibilità di confrontarsi, sia perché le tante cose buone e importanti che si fanno nel nostro paese continuano a rimanere sconosciute o misconosciute».


Corrado Passera, amministratore delegato di Banca Intesa, è tornato dalla tre giorni di forum internazionale sulle Alpi Svizzere, con qualche dubbio in più e almeno una certezza rafforzata: «L’Italia deve finalmente darsi un piano strategico condiviso se vuole ricominciare a crescere nel mercato globalizzato». Una necessità che supera il dibattito contingente, ma al tempo stesso coinvolge profondamente le scelte che la politica e l’imprenditoria sono chiamati a fare.

E sebbene questo sia l’imperativo non solo per l’Italia, ma per buona parte dell’Europa – sottolinea – è difficile non leggere le sue critiche e le sue proposte anche alla luce delle elezioni che fra due mesi decideranno il nuovo governo.


La scarsa presenza italiana è un problema di marketing o di sistema paese?

«E’ un problema di paese innanzitutto. In un mondo che cresce come non mai nel suo complesso, l’Europa cresce poco e l’Italia è il paese che cresce meno in Europa. D’altra parte non sappiamo nemmeno rappresentare e valorizzare le nostre forze e i nostri successi: ad esempio negli ultimi due anni i risultati delle prime duemila aziende italiane sono stati più che soddisfacenti, ma quello che si sente è solo un lamento generale. Ancora, prendiamo il sistema bancario: resta tanto da fare, ma intanto, abbiamo privatizzato più di qualsiasi altro paese dell’Europa continentale e su molti parametri abbiamo banche italiane nei primi posti delle classifiche europee. E in Italia abbiamo il secondo stock di risparmio famigliare al mondo, una risorsa incredibile da indirizzare verso gli investimenti e lo sviluppo. Bisogna spiegarlo per evitare che parlino solo coloro che hanno interesse a fare caccia grossa in Italia, mentre in Europa in molti campi ce la possiamo giocare almeno alla pari».


Intanto però la crescita italiana resta bloccata…

«Ma le sembra possibile che l’Italia sia l’unico grande paese europeo che non attira più investimenti esteri? Non abbiamo certo un costo o una rigidità del lavoro più alti di Germania o Francia. Per i potenziali investitori pesano moltissimo, oltre alle carenze infrastrutturali e alle rigidità di cui anche altri paesi soffrono, la confusione e la sovrapposizione delle responsabilità amministrative, la lunghezza dei nostri processi autorizzativi, l’impossibilità di avere sentenze in tempi brevi. La politica, se sul serio vuole la crescita e gli investimenti esteri, deve affrontare anche questi problemi. I meccanismi decisionali nel nostro paese si sono impaludati, quasi bloccati. Dobbiamo reagire e correggere dove abbiamo sbagliato, se no anche il federalismo porterà a risultati opposti a quelli che si era proposto».


Lo considera un problema strutturale o una responsabilità di questo governo?

«I governi e la politica hanno fra i loro compiti quello di correggere i problemi strutturali e valorizzare le forze di un paese. L’Italia non è l’unico paese che deve affrontare criticità di questo tipo: la politica che guarda solo al breve termine ed è in crisi di fiducia si trova anche altrove nel mondo. L’Italia però appare un paese che non riesce a metter a punto e poi a realizzare un piano condiviso di medio periodo per crescere anche nel mondo globalizzato. Quasi tutti i grandi paesi hanno fatto delle scelte: chi ha puntato sull’industria, chi sui servizi, chi su alcuni settori, chi su altri, chi sulla tecnologia, chi sul basso costo del lavoro e sulla flessibilità, chi su basse tasse e basso welfare, e chi invece su un welfare che ti accompagna per tutta la vita. Ma comunque tutti i paesi che crescono hanno fatto delle scelte precise e ne hanno tratto le relative conseguenze. Invece da noi si lascia troppo all’iniziativa individuale, sperando che i problemi si risolvano da soli: si alzano le spalle di fronte ai processi che si allungano ogni anno di più, alle spese per la ricerca che dovevano essere il 3% del Pil e adesso sono solo l’1%, al numero che continua a essere troppo basso di laureati e diplomati, al blocco corporativo a tanti servizi e così via. Pensi all’energia e alla nostra vulnerabilità! Dall’altra parte pensi all’enorme patrimonio ambientale e culturale che non sappiamo ancora mettere a frutto! Insomma, bisogna che chi si propone di governare sappia mettere a punto un programma in grado di riattivare crescita sostenibile e poi lo realizzi con coerenza. Tutti dovremo fare la nostra parte, compresa quella di non dar pace a chi prende impegni di governo con il paese».


Mancano due mesi alle elezioni. Lei ha capito i programmi degli schieramenti politici su questi temi?

«Mi pare che sugli obiettivi ci sia consenso di fondo. Sulle priorità e su come perseguirle mi aspetto che nelle prossime settimane si potranno cogliere le diverse impostazioni con maggiore chiarezza. Certo non è più il tempo degli aggiustamenti gradualistici e marginali: certi nodi vanno affrontati con decisione. Viviamo anni in cui tutto ciò che non è di breve termine non interessa a nessuno, né ai “mercati” né alla politica: questo vale in tutto il mondo. Ma forse siamo arrivati a un momento nel quale la politica deve avere il coraggio di parlare alla gente spiegando le cose come stanno. La sfiducia la si supera anche parlando chiaro. La gente è più saggia di molti politici e non vuole essere illusa e consolata. Ha timore del futuro e vuole sapere che scelte ha di fronte a sé. Sa che saranno necessari sacrifici, ma vuole essere sicura che ne valga la pena e che siano equamente suddivisi. Mi fa piacere ricordare che a Davos il più lungo applauso l’ha ricevuto la neo-cancelliere Merkel che non ha avuto dubbi nel difendere il valore della “social market economy” fatta di concorrenza, ma anche di solidarietà».


Ad esempio per spingere gli investimenti lei che scelte consiglierebbe?

«In questo momento bisognerebbe premiare in tutti i modi e soprattutto fiscalmente la crescita dimensionale, l’innovazione e l’internazionalizzazione delle aziende. L’abbiamo fatto in momenti molto meno difficili di oggi e se lo facessimo ora questa politica potrebbe permetterci di recuperare almeno un po’ dell’enorme gap di produttività che stiamo accumulando e riguadagnare terreno sui nostri veri concorrenti strutturali che sono Germania e Francia, più che Cina e India. Per fortuna c’è l’euro. Abbiamo una moneta e tassi di interesse da paese virtuoso pur non essendolo. Se avessimo ancora la lira, famiglie, imprese e Stato pagherebbero tassi alti il doppio o il triplo degli attuali».


Sull’immagine dell’Italia hanno pesato anche i «furbetti del quartierino». Quanto sono costate queste scalate bancarie con carte truccate?

«Certamente ci hanno sfavorito, anche perché sono state fortissimamente strumentalizzate da chi aveva interessa a farlo. Ma si è trattato di casi isolati e, guarda caso, quasi sempre finanziati da banche internazionali. La stragrande maggioranza delle banche italiane non chiede alcun tipo di protezione indebita. Detto questo, ogni paese ha i suoi problemi: nessuno pensi che il sistema economico sia fatto di banditi in Italia e boy scout nel resto del mondo. Certo, ci sono sistemi molto più efficaci nel regolare, nel prevenire e anche nel reprimere».


Torniamo a Davos: si è parlato anche di invecchiamento delle società. Con quali conclusioni?

«E’ una questione che in prospettiva riguarderà tutto il mondo, ma che oggi si presenta in modo urgente soprattutto in Europa e in Italia. Economie e società mature, nelle quali a un numero crescente di persone anziane – finora assistite dai sistemi di welfare – si contrappone una percentuale sempre più bassa di persone giovani e un tasso di attività lavorativa insufficiente a garantire la sostenibilità. L’effetto combinato di invecchiamento, tassi di fertilità in calo e insufficiente crescita economica, può indebolire i meccanismi di solidarietà e coesione che oggi diamo per scontati, provocando un aggravamento della crisi di fiducia. La sfiducia paralizza e indebolisce identità e senso di appartenenza. Sono situazioni che possiamo e dobbiamo evitare, ma che nella storia hanno portato – talvolta – anche a rischi per la democrazia».


Anche qui, par di capire, la politica non trova grandi risposte…

«E’ chiaro che il sistema pensionistico pubblico non può reggere e comunque non può essere sufficiente. Ma allora che cosa si aspetta per attivare concretamente il secondo e il terzo pilastro previdenziale? Perché si rinvia? Sembra – non solo in Italia – che le nostre classi dirigenti non vogliano rendersi conto della portata di fenomeni che si sono messi in moto. Un solo esempio per tutti: in Gran Bretagna si sa già che nove milioni di persone non risparmiano abbastanza per garantirsi una sopravvivenza adeguata quando saranno anziani. In Europa sono decine di milioni in questa condizione e molti paesi stanno irresponsabilmente aspettando che il problema esploda».


Che cosa fare per evitare il rischio-welfare di cui lei parla?

«Innanzitutto senza crescita economica il declino sarà quasi inevitabile. Poi la nuova struttura della popolazione dovrà portare a innalzare notevolmente i tassi di partecipazione al mondo del lavoro. In Italia, soprattutto, dobbiamo alzare il tasso di partecipazione femminile, allungare per tutti il tempo di permanenza nel mondo del lavoro e gestire in modo proattivo l’immigrazione. Ma servono piani concreti. È inutile darci l’obbiettivo di alzare la partecipazione femminile se poi non si organizzano gli asili nido. Ma lo sa che dovremmo avere oltre 30 posti disponibili per ogni 100 bambini tra gli 1 e 3 anni e ne abbiamo poco più di cinque?».


A Davos si è parlato molto di Cina, di India, di nuovi equilibri. Come sta cambiando la globalizzazione?

«La globalizzazione è un po’ il sottofondo di tutte le discussioni e sempre più si sente parlare di Global Community, che dà meglio il senso del mondo nel quale viviamo. Ogni anno si parla meno di “G7” e sempre più di “E7” (E come Emerging), il gruppo dei paesi emergenti composto da Cina, India, Russia, Brasile, Turchia, Messico, Sudafrica. Oltre alla concorrenza Nord-Sud è sempre più rilevante anche quella Sud-Sud: alcuni paesi sono stati solo toccati e poi già abbandonati dalla globalizzazione. Talvolta parliamo ancora di difendere produzioni nei nostri paesi che non solo non sono più sostenibili da noi, ma non sono più sostenibili nemmeno nella maggioranza dei Paesi emergenti. Pensi che in Mozambico considerano il tessile un settore non più difendibile dalla concorrenza di produttori a basso costo!».


Come si sta muovendo l’Europa in questo quadro?

«Con grandissimo ritardo. Abbiamo gettato o comunque rimandato sine die un’occasione storica, la Costituzione europea, che avrebbe accelerato l’integrazione e lo sviluppo di politiche economiche e di politiche estere comuni: nessuno ne parla più. L’anno scorso, proprio qui a Davos, si parlava di impegni che ogni paese avrebbe dovuto prendere per armonizzare il Patto di stabilità e crescita con l’Agenda di Lisbona. Anche questo tema sembra rimasto sullo sfondo. Di fronte ai problemi drammatici e alle opportunità gigantesche avremmo bisogno di più Europa e meno egoismi nazionali. Mi sembra che si stia andando in direzione opposta. Soprattutto in Italia, dove l’Europa non appare col necessario risalto nell’agenda politica. E questa è una responsabilità che rischia di costarci cara».