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13 Settembre 2005

Europei e globali

Autore: Piero Fassino
Fonte: Corriere della Sera

Sono trascorsi quattro anni dall’11 settembre e la memoria corre subito
alle immagini televisive — che tutti osservammo attoniti e increduli — di quegli
aerei che, quasi come in un videogame, bucavano le Torri e le riducevano in
macerie.

Dicemmo «nulla sarà più come prima», anche se speravamo — con l’ottimismo
della volontà di chi si sforza di credere sempre nella ragione — che l’enormità
di quella tragedia non avrebbe potuto conoscere replica.

E, invece, questi anni ci hanno consegnato una sequenza tragica di violenza
e terrorismo: Bali, Mombasa, Mosca, Istanbul, New Delhi, Giacarta, Il Cairo,
Beirut, Madrid, Gerusalemme, Beslan, Bagdad, Kabul, Casablanca, Londra, Sharm el
Sheikh sono le stazioni di una via crucis drammatica che ha scandito
dolorosamente la vita del mondo. Il pianeta ha conosciuto — per usare le parole
di Bill Clinton — «il volto oscuro della globalizzazione» ed è sollecitato
sempre più a dotarsi di una strategia che alla globalizzazione dia obiettivi di
liberazione, di uguaglianza, di solidarietà, di progresso. Un’esigenza, del
resto, sollecitata non soltanto dalla necessità di difendere il mondo dalla
insidia mortale del terrorismo.

Le distruzioni che hanno sconvolto New Orleans — e pochi mesi fa lo tsunami
in Asia — non possono essere lette soltanto invocando la furia della natura. In
realtà ci dicono che difendere il pianeta, preservarne l’habitat, tutelarne
l’equilibrio, non dissiparne il patrimonio di risorse naturali e ambientali,
sono questioni ineludibili se non si vuole che l’esistenza stessa dell’umanità
sia a rischio. Così l’irrompere sui mercati della Cina, dell’India, del Brasile
e di altre nazioni emergenti non può essere guardato solo come un rischio da cui
difendersi, ma ci obbliga a fare i conti con un mercato mondiale che si allarga
— e si allargherà sempre di più — a nuovi produttori, rendendo evidente il
bisogno di regole e politiche capaci di consentire a ogni Paese di perseguire il
proprio sviluppo, senza suscitare nuovi conflitti e nuovi protezionismi.
Peraltro le frontiere estreme e inedite della scienza non solo offrono
all’umanità possibilità straordinarie, ma suscitano inquietudini e domande di
senso sull’uomo, sul destino del pianeta, sul rapporto tra scienza e vita. E
ancora: l’Africa è lì a ricordarci che quella globalizzazione che ogni giorno
offre a miliardi di persone ogni tipo di prodotto o bene, non è in grado di
assicurarne l’accesso e la disponibilità ad una moltitudine di donne e di uomini
condannati ad una vita di dolore e miseria.

Tutto questo ci riguarda. «Globalizzazione» è una parola che è entrata
ormai nel nostro lessico quotidiano. Perché il mondo è entrato nella nostra
vita. E questa è la ragione per cui urge dare un ordine, una direzione di
marcia, una guida alla globalizzazione. Per farlo servono politiche pensate e
praticate sempre di più su scala globale. Ma soprattutto serve dare forza a sedi
e luoghi di «sovranità globale». Sì, perché questa è la contraddizione in cui ci
imbattiamo ogni giorno: viviamo in un mondo che è globale in tutto — produzione,
scambi, mobilità, comunicazione, conoscenze — ma continua ad essere governato
dalle sovranità nazionali e dai loro conflitti o dalle loro alleanze. Però
nessuna sovranità nazionale da sola è in grado di governare mercati, relazioni,
dinamiche più larghe dello spazio di una nazione. La guerra in Iraq ci dice che
anche il Paese più potente del mondo da solo non ce la fa.

Tra pochi giorni all’annuale Assemblea generale delle Nazioni Unite, capi
di stato e di governo affluiranno a New York per discutere quella «riforma
dell’Onu» che da più parti viene invocata come una delle scelte per dare corpo
alla «governance globale» di cui il mondo intero avverte la necessità. Si vedrà
lì se i governanti saranno capaci di conferire all’Onu strumenti, risorse,
poteri accogliendo le proposte di Kofi Annan. Oppure se — al di là delle
dichiarazioni di principio — prevarrà ancora una volta l’egoismo delle nazioni.
In tutto questo, grande è la responsabilità di noi europei. Proprio perché
l’Europa è l’area dove si concentra il più grande patrimonio tecnologico,
produttivo e di conoscenze del mondo; è il luogo dove più efficaci sono i
sistemi di protezione sociale e piena è l’affermazione della democrazia; è il
continente dove si è realizzata la più avanzata esperienza di integrazione
politica e istituzionale; ebbene per tutte queste ragioni l’Ue può — e deve —
assolvere ad una funzione di avanguardia nel battersi per costruire un mondo più
giusto. Un’Europa che non si rinchiuda nei suoi egoismi nazionali; un’Europa che
sappia negoziare l’apertura dei suoi mercati ai prodotti agricoli e industriali
dei Paesi in via di sviluppo; un’Europa che sappia essere multiculturale,
multietnica, multireligiosa, contribuendo così alla promozione di dialogo,
cooperazione, riconoscimento con altre civiltà, altre culture, altre
religioni.

Perché l’Europa sia questo, c’è una responsabilità della sinistra europea.
La destra ci propone un’Europa «minima», fondata sulla sola mediazione delle
immediate convenienze, derubricando ogni forma di integrazione a semplice
cooperazione intergovernativa, riducendo peso e ruolo dell’Unione e rinunciando
all’ambizione di realizzare un’Europa unita fondata su una cittadinanza comune,
su un comune sviluppo economico e sociale e su una politica estera e di
sicurezza comune. E, dunque, su una comune responsabilità. In un mondo globale,
sempre più interdipendente, in cui la vita di ciascuno è sempre più intrecciata
alla vita di altri, vince chi unisce e non chi divide, chi apre e non chi
chiude, chi osa e non chi ha paura.

Piero Fassino
segretario dei Ds