«Mettiamoci in testa», dice Arturo Parisi , «che la prova del budino si avrà solo alla fine, ovvero quando
batteremo gli altri alla pari». Nel senso di Partito democratico batte
Partito delle libertà o comunque si chiamerà un analogo «soggetto forte» nel
centrodestra «non più legato alle vicende personali di Berlusconi».
Ma
quando? Ecco, alla vigilia di quello che dovrebbe essere l’ultimo congresso
della Margherita, con il Pd finalmente in dirittura d’arrivo: quando si potrà
dire che la lunga transizione è compiuta e il budino, per restare alla
metafora parisiana, riuscito?
«I rischi di una regressione sulle regole sono
ancora molti», riflette prudente Parisi, «basta pensare all’attuale legge
elettorale e infatti le riforme sono un’assoluta priorità, anche se non vedo
intorno a me la consapevolezza necessaria. E poi i tempi della politica sono
tempi lunghi, non si misurano in anni ma in generazioni. Tenuto conto che
il prossimo appuntamento per il Pd è già scritto nell’agenda istituzionale,
le elezioni europee del 2009… se proprio vuole un anno, tenuto conto
che tutto è cominciato nel 1994, calcoliamo 25-30 anni. Diciamo che
la transizione sarà verosimilmente completata nel 2019».
Il primo a
sorridere sulla propria incontentabilità, su questo spostare sempre un po’
più in là l’obiettivo, è lo stesso Professore.
«Ciò che per gli altri è un
punto d’arrivo», ammette, «per me è un punto di partenza… Ma poi, ancora
quest’inverno, non mi accusavano di correre troppo?».
Nel giorno che segna
l’avvio concreto della costruzione del Pd, il suo obiettivo da sempre, ciò
per cui in definitiva a cinquant’anni è passato dal mondo accademico alla
politica, uno se lo immagina lì gongolante.
«Se fossi tentato da trionfalismo
e narcisismo», ci ride su, «ne avrei da vendere!». E invece macché. Solleva
gli occhi al muro sopra la sua vecchia scrivania nella vecchia sede dei
Democratici in piazza Santi Apostoli, ormai deserta. Guarda i sette simboli
incorniciati, con le sette tappe che hanno portato al Pd: dall’Ulivo del ’95,
passando per i Democratici del ’99 con l’asinello scalciante («effettivamente
di calci in questi anni ne ho dati tantissimi»), la Margherita nel 2001 fino
all’Unione del 2005. Dietro ogni tappa, appunto, un suo calcione.
Se
la Margherita che chiude i battenti lo considera un successo del
progetto politico che ne stava alla base («assolutamente riuscito») e non
ha difficoltà a riconoscere i meriti di Francesco Rutelli («senza di lui
questo percorso sarebbe stato più difficile se non impossibile»), Parisi è
invece decisamente critico nei confronti della Margherita-soggetto.
«Non
ha corrisposto agli obiettivi che ci eravamo proposti», dice chiaro e
tondo, «perché se un partito non riesce ad anticipare nella sua vita
quotidiana quella stessa democrazia che propone per il paese, vuol dire che
qualcosa non funziona».
Cosa?
Il ministro non si sottrae: «Ma le pare che un
partito diviso solo un anno fa sul fatto se presentarsi o meno con un’unica
lista, possa oggi dirsi realmente unito su un passaggio tanto dirimente, io
dico storico? Questo processo ha bisogno di confronto e di verità, e invece
la verità ancora una volta è mancata».
Per responsabilità di chi,
Professore?
«Così come riconosco a Rutelli meriti oggettivi nella
realizzazione del progetto», risponde, «mi è difficile non richiamarlo alle
sue responsabilità per quanto riguarda la costruzione del soggetto. E lo dico
non con il risentimento di chi guarda al passato, ma perché non si ripetano
gli stessi errori nel futuro».
Guardando appunto al futuro, è
giocoforza parlare della leadership del Pd, tenuto conto che «oggi il Pd un
leader ce l’ha ed è il suo fondatore, Romano Prodi». «Poi mi va bene
chiunque», dice Parisi, «purché accetti una competizione che consenta il
confronto».
Candidature in campo?
«In campo c’è solo chi alzando la mano
decide di esserci. Fassino ha fatto bene a dare la sua disponibilità, evviva,
e dirò di più: se per caso in campo ci fosse un solo nome, per aiutare il
processo mi candiderei anch’io».
Fassino, veramente, ha parlato pure di un Pd
che in Europa sta col Pse.
«E’ cosa che non potremo non decidere insieme»,
glissa il Professore, «del resto se il Pd è un partito nuovo non potremo non
fare scelte nuove». E proprio per questo, perché guarda al futuro, Parisi
rifiuta il gioco del Pantheon.
Già mesi fa sempre Fassino gli aveva posto
il problema: «Che foto metteremo nelle nostre sezioni, Arturo?». «I padri
costituenti», rispose Parisi, «perché quell’impresa l’abbiamo condivisa e
vinta insieme». Ma oggi, sottolinea, star qui a preoccuparsi tanto del
Pantheon indica una prospettiva rivolta al passato e perciò stesso
fuorviante. «Invece», insiste il ministro, «o il Pd è il futuro e saprà farsi
carico di tutta l’Unione o saremo da capo. Sempre che il Pd sia sul serio un
partito grande, prima che grosso, capace di dare sicurezza e continuità
all’azione di governo, e non solo lo strumento propagandistico al servizio
del leader». Ma questa, appunto, è la sua prossima battaglia: «Perché fino a
quando tutto non è concluso, nulla è concluso», spiega. Ecco
perché.