Stretta tra la paura di destabilizzare la Turchia e quella di destabilizzare l’Europa, la Commissione di Bruxelles ha scelto una raccomandazione grondante di «se» e di «ma» per l’apertura con Ankara dei negoziati di adesione. Ai capi di Stato e di governo che prenderanno in dicembre la decisione finale viene recapitata la testimonianza di un tormento ancora non risolto.
Un tormento dove ai vantaggi strategici dell’ingresso turco fanno da contraltare insidie settoriali tanto gravi da consigliare all’Unione di non bruciarsi i ponti alle spalle. Alla Commissione guidata da Prodi non è certo sfuggita l’esigenza attualissima di affermare la conciliabilità tra Islam e democrazia, e di lanciare così un segnale avverso allo «scontro di civiltà». Ma le riforme intraprese dal governo di Ankara hanno spesso una attuazione carente o non ancora irreversibile, ed ecco allora che Bruxelles deroga da tutti gli allargamenti precedenti e si lascia a disposizione qualche poderoso freno di emergenza: il negoziato durerà 10-15 anni, non avrà un esito garantito e potrà essere interrotto in qualsiasi momento se l’evoluzione democratica della Turchia dovesse subire una battuta d’arresto. Non solo, si dovrà pensare a una «clausola permanente di salvaguardia» se il flusso migratorio proveniente dal nuovo socio dovesse rivelarsi eccessivo. Quel che la raccomandazione non dice e non poteva dire, è che le vie di fuga lasciate aperte derivano in realtà dalle dimensioni della Turchia, dal suo tasso di crescita demografica, dai suoi confini con i focolai di crisi iracheno e iraniano, dalla sua economia in gran parte agricola, e per alcuni dai sospetti che ancora gravano sul moderatismo del suo governo islamico. Sono questi, assai più dello stato delle riforme di Ankara, gli elementi che in tutti i Paesi europei fanno sì che la maggioranza si pronunci contro l’adesione. E sono sempre questi i motivi che preoccupano e dividono i governi comunitari: perché esiste il rischio che la Turchia si riveli per l’Unione un boccone troppo grosso, tale da pregiudicare la sua identità e le sue ambizioni. Sarà sufficiente a calmare le apprensioni europee, allora, il paracadute aperto dalla Commissione con la clausola sospensiva dei negoziati di adesione? Salvo imprevedibili colpi di scena (dovrebbe esserci una rivoluzione, ha detto Erdogan) la risposta è no. La trattativa potrà allungarsi in presenza di problemi irrisolti, ma è difficile immaginare che gli europei, dopo aver detto «avanti» pur senza entusiasmo, si trovino d’accordo per risospingere la Turchia nella sala d’attesa che la ospita da decenni. Piuttosto, è ragionevole prevedere che un giorno Ankara farà il suo ingresso in una Europa diversa da quella di oggi, dove le «avanguardie» e le «cooperazioni rafforzate» avranno creato nei fatti due Unioni diverse: una più integrata e più presente sulla scena internazionale, l’altra più simile a una zona di libero scambio dalle ambizioni ridotte. Tra l’una e l’altra, sarà soprattutto la Turchia a dover scegliere negli anni a venire. Sempre che non si materializzi quello che per la lunga marcia di Ankara rimane in prospettiva l’ostacolo più formidabile: la scelta di consultare le opinioni pubbliche europee prima di ratificare la nuova adesione. In Francia il presidente Chirac si è già detto favorevole al referendum, è probabile che la Germania segua il suo esempio soprattutto se al potere saranno i cristiano-democratici, e non mancheranno altri imitatori tra gli scettici di oggi. Per superare la prova, la Turchia dovrebbe capovolgere a suo favore le indicazioni fornite di questi tempi dai sondaggi d’opinione. Non sarà una impresa facile, e di questo gli europei si rendono perfettamente conto inquieti come sono sulla ben più vicina ratifica del loro Trattato costituzionale.