Parere pro veritate
Prof. Giovanni Guzzetta
Oggetto: disciplina dello svolgimento dei lavori, delle procedure elettive e di modifica statutaria del Partito democratico in occasione dell’Assemblea del Partito Democratico tenuta il 20 giugno u.s.
In data 20 giugno 2008 si è svolta in Roma l’Assemblea nazionale del Partito democratico. Tale organo, eletto il 14 ottobre 2007, è composta da 2858 membri.
Risulta incontroverso che alla Assise abbiano partecipato un numero di componenti assai inferiore alla maggioranza assoluta del collegio.
Le attività in ordine alle quali viene richiesto il presente parere riguardano due distinte procedure:
a) quella di approvazione di alcune modifiche statutarie (e segnatamente degli artt. X y z) a maggioranza semplice.
b) quella di elezione della Direzione Nazionale, per la quale la Presidenza dell’Assemblea sha in quell’occasione stabilito, da un lato, l’ammissibilità della presentazione di una lista da parte della segreteria del partito, per la quale non veniva richiesta alcuna sottoscrizione ulteriore. E, dall’altro, che eventuali liste alternative avrebbero potuto essere presentate in una finestra oraria di due ore circa, purché esse fossero corredate della sottoscrizione di almeno il 10 per cento dei componenti dell’Assemblea.
All’avvio di tali procedure, da alcuni membri dell’assemblea veniva contestata la mancanza del numero legale e l’illegittimità della procedura di approvazione delle modifiche statutarie a maggioranza semplice, in violazione dell’art. 44 dello Statuto approvato [WINDOWS-1252?]il… il quale all’art. 44 prevede: “Le modifiche del presente statuto sono approvate dall’Assemblea nazionale con il voto favorevole della maggioranza assoluta dei componenti”. A tale contestazione la Presidenza replicava che l’art. 44 dello Statuto non dovesse applicarsi a quella decisione perché l’organo ivi riunito era, in realtà, l’Assemblea Nazionale nella formazione eletta il 14 ottobre (come assemblea costituente) che solo in forza di una disciplina statutaria provvisoria (art. 45, comma 2) assumeva “le funzioni attribuite dal presente statuto all’assemblea nazionale”. La Presidenza concludeva che la regola da applicare avrebbe dovuto essere quella della maggioranza dei presenti (maggioranza semplice). Secondo la Presidenza, pertanto, le funzioni assunte erano quelle dell’assemblea nazionale (ordinaria), ma le procedure deliberative per l’esercizio di quelle funzioni avrebbero dovuto continuare ad essere quelle applicate all’assemblea del 14 ottobre per l’approvazione dello Statuto nel suo complesso.
Anche la modalità di elezione della Direzione nazionale veniva egualmente contestata. Si contestava che la decisione della Presidenza dell’Assemblea, limitativa del diritto di porre candidature, fosse del tutto priva di qualsivoglia fondamento normativo. Lo Statuto prevede, infatti, all’art. 8 unicamente che la Direzione nazionale sia eletta “dall’assemblea nazionale con metodo proporzionale”.
A tali obiezioni rispondeva, con un intervento in Assemblea, il Vicesegretario del Partito, on. Franceschini, il quale sosteneva che la previsione statutaria del metodo proporzionale poteva ben essere “applicata” componendo un listone unico, su proposta della Segreteria, che rispecchiasse “proporzionalmente” le varie componenti dell’Assemblea sulla base delle indicazioni fornite dai “rappresentanti” delle componenti stesse. E che dunque la previsione del potere di presentazione di ulteriori liste, seppure con l’alto quorum di sottoscrzioni, non minasse la democraticità dell’elezione e il rispetto dello Statuto.
1. Sull’applicazione dello Statuto alla riunione dell’Assemblea nazionale del 20 giugno 2008.
Va preliminarmente considerato l’argomento in base al quale la disciplina statutaria riguardante l’assemblea nazionale (ordinaria) si applicherebbe all’attività dell’assemblea nazionale costituente solo in parte qua (con riferimento alle funzioni) ma non per ciò che attiene alle procedure.
Tale ricostruzione non sembra dotata di alcun fondamento da nessun punto di vista.
E’ innanzitutto evidente che il significato della disposizione statutaria è quello di consentire l’immediata applicazione dello Statuto, nelle more della regolare e ordinaria formazione di tutti gli organi statutari, a quegli organi provvisoriamente costituiti al fine di adottare lo Statuto stesso e consentire l’avvio delle attività del partito nella sua prima fase. Infatti, tale finalità anticipatoria non è perseguita dallo statuto solo con riferimento all’Assemblea nazionale eletta il 14 ottobre 2007, ma anche per altri organi, come il vicesegretario nazionale, il tesoriere, i componenti dell’esecutivo nazionale (art. 45, comma 2).
E’ dunque da presumere, fino a prova contraria, che il rinvio alla disciplina statutaria per ciò che concerne l’assemblea nazionale (costituente) mirasse a rendere operanti immediatamente tutte le norme dello statuto relative all’organo (l’assemblea nazionale) le cui funzioni esso viene chiamato ad esercitare.
In assenza di un’esplicita riserva, che non si rinviene, appare cioè singolare e persino paradossale la conclusione per cui si applichino all’attività dell’assemblea costituente le norme statutarie sulle “funzioni” ma non quelle sul “funzionamento” dell’assemblea nazionale. Già la prossimità semantica tra “funzione” e “funzionamento”, rende palese l’incongruenza di immaginare l’attribuzione di una funzione senza assumere l’applicabilità delle norme sul funzionamento.
Che, d’altra parte, le regole procedurali seguite dall’assemblea costituente nella fase precedente all’approvazione dello Statuto, fossero da ritenersi del tutto eccezionali e provvisorie è altresì dimostrato dal fatto che lo stesso statuto, nello mantenere i titolari degli organi precedentemente formatisi (tesoriere, vicepresidente, collegio dei garanti, ecc) senta il bisogno di precisare che “vengono riconosciute come validamente svolte, anche ai sensi dello statuto, la [WINDOWS-1252?]nomina…”. Il bisogno di evocare la validità dà la misura di quanto precarie (seppur giustificate dalla situazione) fossero da considerarsi le procedure applicate prima (e, dunque, necessariamente, al di fuori) della legalità statutaria.
Pretendere, allora, che quelle procedure eccezionali possano continuare a costituire la regola proprio nel momento in cui si opera la transizione alla legalità statutaria appare a dir poco assurdo e illogico.
Si opererebbe infatti un capovolgimento logico. Anziché favorire la transizione dalla fase preliminare alla fase ordinaria (così come si deduce dalla ratio dell’art. 45) si finirebbe per far sopravvivere una disciplina vecchia anziché applicare quella nuova.
Né d’altra parte può giustificare una diversa ricostruzione il fatto che il “Regolamento quadro per l’elezione delle Assemblee costituenti del PD”, stabilisse all’art. 2 che: “L’Assemblea nazionale [WINDOWS-1252?](…) approva il Manifesto e lo Statuto nazionale del Partito ed assolve ad ogni altra funzione attribuitale dalle norme transitorie e finali dello Statuto”.
Ciò per due ragioni: 1. perché il Regolamento quadro, qualunque cosa prescrivesse, è atto normativo precedente allo Statuto e dunque va semmai interpretato alla luce dello Statuto e non viceversa. 2. Perché il suddetto Regolamento quadro nulla prescrive in ordine ai quorum necessari alla validità delle sedute e delle deliberazione.
Né, infine, per risolvere la questione appare invocabile il c.d. Regolamento per la presentazione degli emendamenti e l’esame delle proposte di Statuto, Manifesto e Codice etico da parte dell’Assemblea nazionale, il quale all’art. 3, comma 1 prevedeva un’approvazione “per alzata di mano a maggioranza dei presenti” dello Statuto.
Sia perché esso riguarda solo l’attività finalizzata (e dunque precedente) all’approvazione dello Statuto, sia, e soprattutto, perché tale Regolamento provvisorio non risulta essere mai stato approvato dall’assemblea la cui attività pretendeva di disciplinare.
D’altra parte, anche ad una semplice interpretazione letterale, risulta impossibile ritenere che un regolamento approvato esplicitamente al solo fine di consentire la presentazione degli emendamenti e l’esame delle proposte di Statuto, Manifesto e Codice etico da parte dell’Assemblea nazionale, possa trovare applicazione, in assenza di un esplicito richiamo, una volta che gli emendamenti e le proposte di statuto siano state vagliate e lo Statuto definitivamente approvato. E’ infatti evidente che gli emendamenti e le proposte di statuto sono cosa del tutto distinta dalla revisione dello statuto successivamente alla sua approvazione. L’emendamento è infatti un atto endoprocedimentale rivolto a modificare il progetto di un testo, prima che tale testo acquisti efficacia. La revisione, viceversa, è un atto distinto dal testo che si propone di modificare e che di questo, nel momento in cui intende variarlo o integrarlo, presuppone la vigenza. Il fatto che nel linguaggio comune o giornalistico “emendamento” e “revisione” siano percepiti come sinonimi non ha alcun pregio nell’ambito di un’attività tecnica di interpretazione giuridica.
Non è un caso, né il desiderio di seguire una semplice variate estetica, ciò che ha condotto gli autori dello Statuto a disciplinare espressamente, all’art. 44 dello Statuto stesso, la “revisione” del medesimo con una normativa, non a caso, diversa da quella prevista per la sua approvazione e per gli emendamenti presentati nel corso di quella procedura.
Insomma, se l’intenzione dei redattori dello Statuto fosse stata quella di perpetuare oltre la sua entrata in vigore le regole procedurali previste per la fase precedente, la disposizione dell’art. 45 avrebbe dovuto essere formulata in modo del tutto diverso, stabilendo cioè che fossero fatte salve le procedure precedenti e non solo che l’organo (costituente) assumesse le funzioni statutariamente previste.
2. Esclusione dell’applicabilità delle norme seguite per l’approvazione dello Statuto e, in particolare, del Regolamento per la presentazione degli emendamenti e l’esame delle proposte di Statuto, Manifesto e Codice etico da parte dell’Assemblea nazionale per l’approvazione delle modifiche statutarie.
Peraltro, pur ammettendo, per assurdo, che l’articolo 45 dello Statuto (evocando le funzioni, ma non le regole di funzionamento) nulla disponesse in ordine alle procedure da seguire per svolgere le funzioni attribuite all’Assemblea Nazionale costituente, nulla consente di applicare nella vigenza dello Statuto una disciplina illegittima (in quanto mai approvata dall’assemblea)e comunque ormai inefficace, in quanto destinata ad estinguersi con l’esaurimento della funzione (elaborazione dello statuto) per la quale essa era stata prevista.
Detto in altri termini, se anche si volesse assurdamente ritenere che l’art. 45 non abiliti all’applicazione delle procedure di cui all’art. 44 dello statuto, si dovrebbe concludere che ci si trova in presenza di un vuoto di disciplina. E questo vuoto non può certo colmarsi applicando una procedura in alcun modo prevista per (ed estensibile al)la fattispecie de qua.
E, dunque, pur ammettendo in via di ipotesi l’esistenza di un vuoto normativo, la sua integrazione dovrebbe avvenire applicando i principi generali in materia di fenomeni associativi quali sono previsti dal nostro ordinamento. Principi la cui applicazione solo una esplicita norma derogatoria potrebbe, secondo le regole dell’interpretazione, rendere inoperanti.
A questo proposito risulta allora evidente che, in materia di regole di funzionamento delle associazioni ed enti, soprattutto quando si tratti di intervenire sulle norme fondamentali, quali lo statuto, il principio fondamentale è che le modifiche dell’accordo associativo (qual è lo statuto) debbano essere assunte almeno con la partecipazione della maggioranza degli aventi diritto, a meno che lo statuto stesso non preveda diversamente.
Ciò si desume facilmente dall’interpretazione sistematica delle norme di diritto comune che disciplinano i fenomeni associativi.
In particolare è appena il caso di ricordare che l’art. 21 del c.c. prevede, per le associazioni riconosciute che “Le deliberazioni dell’assemblea [in prima deliberazione] sono prese a maggioranza di voti e con la presenza di almeno la metà degli associati” e che “Per modificare l’atto costitutivo e lo statuto, se in essi non è altrimenti disposto, occorrono la presenza di almeno tre quarti degli associati e il voto favorevole della maggioranza dei presenti”.
Lo stesso vale per le deliberazioni delle associazioni non riconosciute, per le quali, in base a giurisprudenza costante, si applicano, ove non altrimenti disposto dal codice civile o dagli accordi degli associati, le disposizioni previste per le associazioni riconosciute.
Ancora sulla stessa linea si colloca, tanto per fare un ulteriore esempio, la disciplina delle società di persone, per le quali, in base all’art. 2252 cc, “Il contratto sociale può essere modificato soltanto con il consenso di tutti i soci, se non è convenuto diversamente”.
Né vale obiettare che la disciplina civilistica non possa essere applicata anche ai partiti politici. A parte ogni considerazione sul fatto che la qualificazione prevalente in dottrina (cfr. per tutti G.U. Rescigno, Partiti politici, articolazioni interne dei partiti politici, diritto dello Stato, in Giur. Cost., 1964, 1426 ss.) e giurisprudenza (cfr. ex plurimis cfr. Pretura Agrigento 23 gennaio 1981, in Giur. it., 1982, I, 2, 194 ss.; Cass., Sez. un., 17 novembre 1984 n. 5837, in Giust. civ. 1985, I, 329 ss.; Cass., Sez. un., 4 dicembre 1984 n. 6344, in Giur. it. Mass., 1984, 1283 s.; Trib. Verona, 7 dicembre 1987, in Giur. It., 1989, I, sez. II, 76 ss.; Pretura Civitavecchia 9 agosto 1991, in Giur. merito, 1992, 18 ss.; Trib. Roma 26 aprile 1991, in Nuova giur. civ. comm., 1992, I, 143 ss.) relativamente ai partiti politici è proprio quella di associazioni non riconosciute, una diversa qualificazione (di tipo pubblicistico) non consentirebbe di giungere a diversa conclusione.
Infatti, costituisce giurisprudenza constante del giudice amministrativo che anche per i collegi di natura pubblicistica il quorum strutturale deve essere stabilito testualmente e, ove ciò non sia, occorre applicare il principio generale della presenza della maggioranza assoluta dei componenti del collegio per la validità della seduta (Consiglio Stato sez. IV, 4 marzo 1993, n. 238). Ove dunque il quorum strutturale (necessario per la validità della seduta) non sia stabilito “testualmente” esso si ricava dal principio della maggioranza assoluta dei componenti. La quale, a scanso di ogni equivoco, “è data dal numero che, raddoppiato, supera il totale dei componenti almeno per un’unità rispetto ai membri del collegio (Cons. Stato, V, 7 luglio 1987, n. 463; Cons. Stato, II, 18 febbraio 1981, n. 1307).
In conclusione, quale che sia la ricostruzione che si voglia dare dei partiti politici è evidente che i principi generali del nostro ordinamento prevedano [WINDOWS-1252?]– per qualsiasi fenomeno associativo – che in nessun caso possa essere considerata valida una seduta ed una procedura che prescinda dalla partecipazione della metà più uno dei componenti del collegio. Soprattutto qualora si tratti di modifiche statutarie e almeno che non sia diversamente previsto in modo espresso dagli accordi degli associati. Tale non potendosi ritenere, come dianzi esposto, la disciplina del Regolamento per la presentazione degli emendamenti e l’esame delle proposte di Statuto, Manifesto e Codice etico da parte dell’Assemblea nazionale, il quale non è stato in alcun modo richiamato dallo statuto e le cui norme, pertanto, sono da considerare del tutto inoperanti per la fase successiva a quella dell’approvazione dello statuto stesso.
E’ appena il caso di dire che la ratio tali principi è del tutto evidente e salta agli occhi di chiunque abbia una qualche consuetudine con il funzionamento delle democrazie e delle assemblee che, ai principi della democrazia, si ispirino. Tanto più se si tratta di assemblee di partito che, oltre a recare nella propria denominazione stessa il richiamo alla democrazia, si collochino sotto l’ombrello della costituzione italiana e del suo articolo 49, che, al principio democratico, vuole ispirata la vita e l’attività dei partiti stessi.
L’idea è infatti che la vita di associazioni formate su base volontaria non possa essere condizionata da scelte di semplici “minoranze” in violazione del principio democratico e del principio consensuale (art. 18 Cost). Affermare che per le deliberazioni, e in particolare per quelle di modifica dello statuto fondamentale di un partito, non sia richiesto alcun quorum strutturale, significa ammettere, in linea teorica, che anche tre persone possano mutarne validamente le regole fondamentali. Viceversa la regola della maggioranza assoluta dei componenti per la validità delle sedute risponde all’esigenza di assicurare il valore, tipico della democrazia, dell’uguaglianza politica di tutti i componenti dell’organo. Cosicché è proprio la partecipazione della metà più uno dei componenti ad assicurare che la volontà di partecipare e deliberare appartenga ad un numero di “uguali” superiore a quello di coloro che, con la propria assenza, rifiutano di partecipare e deliberare.
Né si potrebbe affermare che le conclusioni si qui giunte siano inficiate dalla circostanza che nemmeno l’art. 44 dello Statuto prevede un quorum strutturale (o di partecipazione) per la validità delle modifiche statutarie. E’ bensì vero che il predetto articolo si occupi solo del quorum funzionale (cioè della maggioranza necessaria perché la deliberazione debba essere assunta). Ma poiché, ai sensi di tale articolo, il quorum richiesto per assumere la deliberazione è della metà più uno dei componenti, la sua stessa previsione impedisce, per ragioni logiche, che i partecipanti alla seduta in cui si delibera possano essere meno di tale maggioranza assoluta. Detto in altri termini, poiché nel più sta il meno, la previsione di una maggioranza assoluta come quorum funzionale comprende implicitamente in sé la previsione (almeno) di una maggioranza assoluta di presenti ai fini del quorum strutturale. Pena l’impossibilità di deliberare (a maggioranza assoluta).
3. Conclusioni sul quesito relativo al quorum necessario per l’approvazione delle modifiche statutarie.
In base a quanto precede si può pertanto giungere pianamente alla conclusione che, seppure si volesse, del tutto ingiustificatamente a parere di chi scrive, escludere l’applicabilità dell’art. 44 dello Statuto alle modifiche introdotte nella riunione dell’assemblea nazionale del 20 giugno 2008, si dovrebbe giungere comunque alla conclusione che, nell’interpretazione più generosa rispetto alle ragioni addotte dalla Presidenza, nessuna modifica possa essere approvata senza la presenza della metà più uno dei componenti dell’organo.
4. Sulla validità dell’elezione dei componenti della direzione nazionale
Anche il quesito relativo allo svolgimento dell’elezione della Direzione nazionale dev’essere risolta nel senso della invalidità della stessa in base ad una serie di argomenti convergenti.
Il primo si trae da quanto appena concluso in relazione alla precedente questione. Infatti, ogni adempimento compiuto dall’assemblea nazionale riunitasi il 20 giugno risulta invalidato dall’assenza acclarata del numero legale. Come si è precedentemente detto, in assenza di una norma che preveda una diversa disciplina, non può riconoscersi la validità delle sedute (e conseguentemente delle deliberazioni in essa previste) nei casi in cui non partecipino alle medesime (quorum strutturale) la metà più uno dei componenti.
Tanto più che, nel caso delle deliberazioni di tipo elettivo compiute nella riunione dell’Assemblea del 20 giugno, non sono nemmeno invocabili le argomentazioni (già peraltro confutate più sopra) ricondotte alle previsioni del Regolamento per la presentazione degli emendamenti e l’esame delle proposte di Statuto, Manifesto e Codice etico da parte dell’Assemblea nazionale, le quali ritengono sufficiente la maggioranza dei presenti. Tale regolamento (anche a volerne ammettere, per amore di speculazione, la validità e l’efficacia) si applica, infatti, solo alle procedure di approvazione (dello statuto) ma non certo di elezione della direzione nazionale (organo che al momento dell’approvazione del regolamento citato nemmeno esisteva).
Del tutto invalida appare inoltre la disposizione resa nota dalla Presidenza dell’Assemblea sulla modalità di presentazione delle firme. Sia perché il quorum del 10 % dei componenti dell’Assemblea, non previsto da alcuna disposizione statutaria o regolamentare, costituisce una grave limitazione del diritto di partecipazione alla procedura elettorale. Sia per l’irragionevole e pertanto arbitraria disparità di trattamento rispetto a quanto diversamente previsto per la presentazione del “listone” da parte della Segreteria.
Inoltre appare quantomeno contraddittorio che la Presidenza sostenga contemporaneamente due tesi tra loro inconciliabili. Quella in base alla quale non esisterebbe alcun quorum di validità delle sedute mentre sarebbe arbitrariamente possibile imporre un quorum per la presentazione delle candidature. Con la conseguenza che potrebbe ben essere valida una seduta cui partecipi meno del 10 % dei componenti, ma che sarebbe nell’impossibilità di operare l’elezione per l’alto quorum richiesto per avviare la procedura elettorale.
Infine appare comunque, e definitivamente, dirimente l’argomento desumibile dall’unica prescrizione statutaria in ordine all’elezione della direzione nazionale: quella in base alla quale a tale elezione debba essere applicato il “metodo proporzionale” (art. 8).
Il principio proporzionale, infatti, nella sua forma pura, richiederebbe che la rappresentanza venga definita in termini fotografici rispetto alle preferenze degli elettori. Ogni alterazione di tale “proporzionalità” (quali soglie di sbarramento più o meno alte, ripartizione dell’elettorato in circoscrizioni più o meno ampie, ecc.) costituisce infatti un’eccezione al principio. In via interpretativa, dunque, in assenza di ulteriori specificazioni e deroghe, il riferimento al “metodo proporzionale” dovrebbe trovare un’applicazione quanto più fedele al criterio della corrispondenza tra percentuale di voti e percentuale di “seggi”.
Ora, a ben vedere, la previsione di una sottoscrizione obbligatoria da parte del 10 % dei componenti dell’assemblea (i c.d.d. delegati), quale imposta dalla Presidenza il 20 giugno 2008, ridonda direttamente in una assai significativa alterazione del principio di proporzionalità richiesto dallo Statuto. Dovendosi infatti ritenere che i sottoscrittori intendano presentare la lista al fine di ottenere nelle elezioni una propria rappresentanza proprio attraverso quella lista, la soglia del 10 % nella presentazione equivale ad imporre una soglia implicita del 10 % nella rappresentanza. Nessuno che non raccolga intorno a sé un consenso di meno del 10 % può infatti partecipare alla procedura ed ottenere, pertanto, una rappresentanza.
Il che, anche alla luce dell’esperienza comparata dei procedimenti elettorali politici, là dove sia previsto un sistema proporzionale, costituisce un’abnorme distorsione del principio proporzionale (il caso della Costituzione tedesca e della giusirpudenza costituzionale sulla Sperrklausel del 5 % è a tal proposito illuminante).
Né varrebbe infine replicare che la previsione della soglia per le sottoscrizioni, stabilita dalla Presidenza, costituisce un atto illegittimo da considerarsi tamquam non esset. Cosicché, in concreto, nulla avrebbe impedito di presentare una lista con un numero minore di sottoscrizioni. E sarebbe anzi il non averlo fatto una prova della mancanza di un interesse alla regolarità dell’elezione non ulteriormente contestabile in via successiva.
Innanzitutto, infatti, sul piano dei principi processuali (in applicazione dell’art. 24 cost., che tutela il diritto di agire in giudizio per chiunque) le preclusioni a ricorrere e le conseguenti decadenze debbono essere stabilite espressamente. In secondo luogo l’inefficacia degli atti illegittimi costituisce un’eccezione alla normale regola della loro efficacia fino alla contestazione. Cosicché la previsione della soglia del 10 % non può considerarsi inefficace (cioè tamquam non esset), ma deve ritenersi operativa (cioè efficace) sino all’eventuale ricorso, che infatti è stato successivamente e tempestivamente elevato.
Infine, attesi i poteri della Presidenza in ogni riunione di qualsiasi collegio, le deliberazione da questa assunte (come imporre la soglia del 10 %) non possono considerarsi talmente abnormi da dar luogo ad atti radicalmente nulli e dunque, in questo caso sì, tamquam non essent.
In conclusione si deve ritenere che la previsione di una soglia del 10 % per la presentazione delle candidature alla Direzione nazionale, fosse del tutto invalida è tale pertanto da invalidare i risultati stessi della medesima elezione.
Né dimostra alcun pregio, sia detto liminarmente, l’argomento che il listone per il modo in cui è stato “confezionato” dalla Segreteria costituirebbe già di per sé un’applicazione del principio proporzionale.
La differenza essenziale tra un sistema di rappresentanza “corporativa” ed un sistema di rappresentaza “democratica” sta proprio nel fatto che la proporzionalità a cui si allude non è quella stabilita una volta per tutte e riprodotta meccanicamente nelle elezioni di secondo grado successive. La proporzionalità significa che la ripartizione dei seggi debba essere calcolata in proporzione alla preferenze raccolte (attualmente) nell’elezione di cui si tratta e non in base alla meccanica applicazione di proporzioni desunte aliunde, si trattasse anche di una elezione precedente. Insomma, parafrasando l’art. 49 cost., per potersi avere proporzione il presupposto è che le preferenze elettorali possano attualmente distribuirsi tra proposte “concorrenti”. Non che si esprimano solo approvando o respingendo una proporzione “prestabilita”.
Infatti, la circostanza che tale listone sia stato “approvato” dall’assemblea varrebbe forse a riconoscere all’elezione una natura plebiscitaria, ma non certo democratica, proprio per l’assenza di concorrenza tra liste, causata dall’impossibilità (come si è detto) di mettere in campo dei concorrenti capaci di contendere il risultato al vincitore annunciato.
5. Conclusioni
Per le suesposte ragioni, vi è da ritenere che le deliberazioni, decisionali ed elettive, del’Assemblea nazionale del PD del 20 giugno 2008 siano da considerarsi illegittimanente adottate e pertanto annulabili, sia per mancanza del numero legale che per l’illegittimità del quorum richiesto per le deliberazioni e la presentazione delle liste.
Ne consegue che l’Assemblea andrebbe riconvocata legittimamente per l’assunzione di tali determinazioni.
Si tratta, d’altra parte, di un’evenieza che non va soverchiamente drammatizzata. Da un lato perchè sarebbe comunque il segno di una capacità di rispetto della democraticità interna e potrebbe avere un effetto politico di legittimazione della credibilità del partito stesso e della sua capacità di autocorrezione. Ciò soprattutto se l’annullamento fosse proclamato dagli organi di “giustizia interna” senza che i ricorrenti si vedano costretti a rivolgersi all’autorità giudiziaria ed a richiedere, come accaduto in altre occasioni e per altri partiti, l’intervento “esterno” degli organi dello Stato per assicurare il diritto costituzionale ad agire in giudizio al fine di garantire la tutela dei propri diritti ai singoli associati.
D’altro lato, episodi di annullamento delle deliberazioni di organi di partito, addirittura di assemblee congressuali di partito, non sono mancati anche nella storia recente.
Viene alla mente, a questo proposito, l’annullamento dell’assemblea cogressuale che nel gennaio del 1991 aveva eletto a maggioranza semplice (e non assoluta) il segretario del Partito Democratico di Sinistra (PDS). La vicenda, com’è noto, si risolse con l’annullamento della votazione e la nuova convocazione dell’assemblea congressuale che elesse segretario l’On. Achille Occhetto.
Roma, 28 luglio 2008
Giovanni Guzzetta