Caro Direttore, entrato nei
dettagli tecnici, il dibattito sulla legge elettorale sta perdendo di vista i
punti essenziali. Ma quando negli anni 90 il movimento referendario coinvolse
milioni di italiani, non fu certo per amore di istituti allora sconosciuti come
il collegio uninominale, ma perché riaffermava valori dai quali la politica si
stava allontanando, e che venivano percepiti come essenziali per un
rinnovamento del Paese. Erano il principio che la scelta del governo va fatta
dagli elettori con il voto, perché solo così il cittadino partecipa
effettivamente alla vita democratica; il principio che il mandato politico deve
essere chiaro e stabile, perché solo così coincidono potere e responsabilità;
il principio che i partiti devono rimanere strumenti di intermediazione tra
società e istituzioni, perché se acquisiscono direttamente il potere diventano
sedi di prevaricazione e corruzione. Fu una battaglia piena di motivazioni
etiche, politiche, sociali, vissuta con la volontà di segnare una svolta
storica, di recuperare quel senso dello Stato e quella forza delle istituzioni
che sono patrimonio acquisito delle democrazie più antiche, ma che sono state
sempre carenti in Italia. Da alcuni di noi fu vissuta con una tale intensità da
portarci ad abbandonare il partito nel quale avevamo militato (nel mio caso un
grande partito come la Dc) quando giudicammo inconciliabili le due strade.
Ma questi valori non sono più
attuali? Non sono più essenziali alla vita democratica? E se lo sono, riteniamo
di averli già acquisiti? E se la risposta è negativa (ed è difficile rispondere
altrimenti) dobbiamo definitivamente rinunziarvi, considerando l’Italia
inadatta, incapace di adattare ad essi la vita pubblica? Questa è la domanda,
la vera domanda che va rivolta alla classe politica, e soprattutto ai due
principali attori, Berlusconi e Veltroni. Perché il grave dei loro progetti è
la rinunzia esplicita ad ogni grande progetto di riammodernamento delle
istituzioni, a cominciare dalla sua pietra angolare, la scelta del governo da
parte dei cittadini. Il proporzionale corretto è una formula elegante e
misteriosa per mascherare tutto questo. Nella realtà si ripiomba nello schema
opposto, si ritorna ai governi fatti, distrutti e condizionati dai partiti, si
consacra un sistema politico incapace di decidere, di governare il Paese,
ridotto a un perpetuo galleggiamento. È la rinunzia ad una strategia alta, la
resa all’idea che l’Italia sarà ancora a lungo una democrazia imperfetta,
arretrata.
Dopo avere per anni additato
Blair e Sarkozy come modelli, e invidiato i sistemi che permettono loro di
governare sul serio, la nostra politica scopre che il bipolarismo è inadatto
all’Italia e non ha funzionato. Ma poiché dove è stato realmente applicato, e
cioè nei comuni, nelle province e nelle regioni, il bipolarismo funziona invece
egregiamente, ci si dovrebbe chiedere se a Roma non ha funzionato perché non è
stato
se si pensa che tutte le volte che i cittadini si sono pronunciati su questi
temi, non solo nei referendum elettorali ma anche in quelli di Friuli e
Sardegna sulla elezione diretta del presidente, i favorevoli alla riforma sono
stati sempre enormemente superiori ai contrari, possiamo concludere che vi è un
Paese che vuole il cambiamento, ma è bloccato da una classe dirigente
tenacemente ancorata a sistemi che la conservano al potere.
Eppure i due leader di oggi si
sono spesso caratterizzati su posizioni avanzate. Veltroni è stato tra i più
convinti sostenitori del «sindaco d’Italia», Berlusconi ha addirittura
anticipato la riforma scrivendo il nome sulla scheda elettorale. Abbiamo tutto
il diritto di chiedere loro di essere i realizzatori della grande riforma, non
gli affossatori.
Il Paese è bloccato da una classe
dirigente tenacemente ancorata a sistemi che la conservano al potere